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La strage di Canicattì del '47. La sentenza (D. Guadagnino)
Gli atti della Sentenza del 15 luglio 1952 di Diego Guadagnino Una risposta definitiva alle " sortite " dei “fascistelli” di oggi Col presente contributo, inviatoci da Diego Guadagnino, il quale ha partecipato alla presentazione del libro “ Certo, sarebbe stato più saggio, da parte nostra, per la risibile consistenza delle loro argomentazione e peri il palese autentico autogol rappresentato da quell’ intervento apparso su siti non qualificabili di internet, fare finta di niente e lasciar correre. Non l’abbiamo fatto all’inizio, lo facciamo adesso con il supporto di queste righe di Diego Guadagnino nella parte finale,nelle quali si riportano le motivazioni della sentenza, delle cosiddette “verità giudiziarie” della vicenda, dove efficacemente si smentiscono quelle accuse, svanite come nebbia al sole, risultate senza fondamento, facendo luce e “assolvendo” cosi i protagonisti, vittime e sopravvissuti, da ogni responsabilità stragistica e da intendimenti sovversivi. Quella manifestazione, per quanto “prepotente”, perchè voleva imporre la chiusura di alcuni locali in un giorno di sciopero – oggi inconcepibile, se si pensa che lo sciopero è libero e non si può imporre a nessuno – fu solo una manifestazione per l’imponibile di manodopera, fu sicuramente voluta da “socialcomunisti” sindacalisti, “partitacamente” schierati, ma non fu una insurrezione contro lo Stato, una provocatoria trappola contro le forze dell’ordine e – cosa che i “camerati” tacciono del tutto o fanno finta di non sapere- se qualcuno fece scoppiare la tragedia c’è da chiarire che ruolo ebbero i “signori” del Fronte dell’Uomo Qualunque, i mafiosi e gli agrari e i “fascisti “revangisti” camuffati tra la folla o pronti ad intervenire dal Circolo di Compagnia.(V.S.)
Un’eccezionale occasione di riflessione e di dibattito
L’opera curata da Giuseppe Carlo Marino
Riteniamo La Sicilia delle stragi, il libro scritto a più mani e curato da Giuseppe Carlo Marino, edito dalla Newton Compton Editori, Roma 2007, un’eccezionale occasione di riflessione e di dibattito su democrazia e violenza, due temi che costituiscono i cardini di un secolo e mezzo di storia della Sicilia, dall’indomani dell’Unità d’Italia allo stragismo di Cosa Nostra.
L’opera ha un duplice significato, politico e culturale. Politico, perché ripercorre momenti drammatici della storia del popolo siciliano sui quali la ricerca storica ci ha insegnato che la verità è una conquista e mai una concessione delle versioni ufficiali, che in tanti casi si sono rivelate dolose operazioni di depistaggio; culturale, perché ci sembra la risposta più motivata e ragionata alla filosofia lampedusiana del cambiare tutto perché nulla cambi, una visione della storia concepita per attribuire al popolo siciliano un atteggiamento fatalista che lascia intravedere la miseria come una sorta di condanna metafisica.
Una coincidenza rivelatrice è l’emergere della strategia stragista nel delicato passaggio dalla dittatura alla democrazia, una coincidenza che dimostra come la mafia, nel suo essere strumentale al potere politico, per la sua sussistenza e per i suoi profitti necessita della democrazia per svuotarla di contenuto e ridurla a simulacro di se stessa. Ciò che vanifica la democrazia non è il rassegnato fatalismo arabo di cui saremmo affetti, ma è l’interferenza del potere mafioso che vive ed agisce in simbiosi con quello politico. Da ciò deriva che, in Sicilia, la democrazia non è mai definitivamente consacrata dalle istituzioni che dovrebbero rappresentarla e garantirla, ma è uno spazio entro cui va costruita e difesa giorno dopo giorno e con un coraggio civile che superi in convinzione e determinazione la temerarietà e la spregiudicatezza con cui il potere mafioso suole operare.
Non è un caso che il gattopardismo, come lettura della storia, sia stato concepito in Sicilia e da un siciliano rappresentante di una classe che, sconfitta dalla propria inettitudine, vedeva svanire secolari privilegi senza vedere nel contempo emergere un mondo di diritti e di giustizia, anzi constatando la comparsa delle “iene” (“Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene”) e accorgendosi di essere soltanto sostituita nella gestione della ricchezza. Il Principe (e intendiamo sia il trisavolo personaggio che il pronipote scrittore) cristallizza la storia in un concetto metafisico in cui un’illusione di movimento nasconde una realtà d’immobilismo (e con lui anche i maggiori scrittori siciliani Verga, De Roberto, Pirandello). La risposta a tale sconsolata e sconsolante visione sta nel capire quali forze, quali energie operino nella realtà siciliana, e operino in maniera tale da indurre a quelle considerazioni errate. Pensiamo che l’opera curata da Giuseppe Carlo Marino, focalizzando le stragi in Sicilia, non solo ci aiuti a individuare i meccanismi intesi a vanificare le lotte per la democrazia e la democrazia stessa, ma dimostri come
La reazione degli agrari ai decreti Gullo, nell’immediato secondo dopoguerra, è l’esempio più eloquente di come la forza intimidatrice della mafia si sia attivata per la sua disapplicazione, a volte anche collaborata dalle forze dell’ordine che avrebbero dovuto garantirne l’esecuzione.
“In quest’isola – scrive Marino - (pag. 28) è parecchio difficile far dipendere gli eccidi da una fondamentale preoccupazione delle autorità di tutelare l’ordine pubblico, a meno che per “ordine” non s’intenda il sistema dei privilegi e degli interessi dei ceti dominanti : si badi, ceti dominanti siciliani che, in Sicilia, sono soliti affidare la difesa del loro potere sia ad uno Stato reso servizievole e subalterno, sia – il che è più normale e frequente- ad autonome forze sociali locali, in gran parte coincidenti con la mafia.”
La strage di Canicattì
La strage di Canicattì, a cui è dedicato l’omonimo saggio di Salvatore Vaiana, matura e si verifica in un clima in cui agiscono tutti quegli elementi riconducibili alla “pedagogia della paura”. E non è un caso che l’autore sia di Prizzi e non di Canicattì, una città dove finora nessuno, storico o scrittore, aveva avuto il coraggio o semplicemente la voglia di indagare a fondo testimonianze e documenti relativi a quel tragico pomeriggio del 21 dicembre 1947. Tale e tanto è stato il trauma lasciato da quei fatti nell’anima della collettività. Come canicattinesi, indipendentemente dall’appartenenza politica, bisogna essere grati a Vaiana per avere, col suo studio accurato e documentato, aperto un dibattito su una pagina così dolorosa della nostra storia. Altrove abbiamo parlato di strage dimenticata, alludendo ai sessant’anni di silenzio passati su di essa, ma dobbiamo ammettere che non di strage “dimenticata” si tratta, bensì di “strage rimossa”. Dimenticato è ciò che è come se non fosse mai avvenuto, “rimosso” (termine freudiano) è quello che invece continua perversamente a lavorare e a dolorare nell’inconscio: le varie reazioni suscitate dall’uscita del saggio di Vaiana sono la prova di un passato non sottratto ai fantasmi della disinformazione e dell’irrazionale, ma sono anche il segnale di una sentita necessità di parlarne; e l’autore, con lungimirante onestà di storico, conclude il suo studio con un paragrafo giustamente intitolato Per una conclusione provvisoria, implicitamente auspicando una più approfondita indagine anche attraverso la rilettura degli atti del processo avanti
Troviamo significativo e inquietante che qualcuno possa parlare di “pene miti” irrogate agli organizzatori della manifestazione, che diventarono gli imputati maggiori nel processo che seguì la strage. Quello della mitezza delle pene è un apprezzamento che scaturisce dalla mancata conoscenza degli atti giudiziari e dalla inconscia (ma poi non tanto) convinzione che proprio loro, quegli imputati, siano stati, comunque, i responsabili della strage del 21 dicembre 1947; ed è grave che ciò si continui a pensare contro lo stesso verdetto della Corte di Assise. Chiaramente, se riferita al reato di strage, la pena di “anni sette di reclusione, mesi cinque e giorni venti arresto e lire duemila di ammenda” non appare mite, ma addirittura impossibilmente lieve, atteso che il reato è punito con l’ergastolo, ma se riferita ai reati da cui la condanna scaturisce, allora va considerata una sanzione esemplarmente pesante. E non per sterile volontà di polemica facciamo questa precisazione, ma per stigmatizzare come anche certi “giudizi”, che intendono essere storici, tendano a mutuare acriticamente il diffuso pregiudizio emotivo, lontano dalla stessa realtà processuale.
La sentenza del 15 luglio 1952
Scrive Vaiana che all’indomani della strage “le indagini dei carabinieri furono indirizzate esclusivamente a sinistra”. Tale comportamento degli inquirenti, nella ricerca della verità e della ricostruzione dell’accaduto, fu determinato dal clima all’epoca imperante che induceva a ritenere gli agrari e la mafia forze d’ordine e, quindi, a vedere come “ordine costituito” il loro sistema d’interessi. Che così sia stato, per pregiudizio politico contro i movimenti della sinistra, oggi non lo deduciamo soltanto dall’ arringa, articolata e lucida, che l’avvocato Lelio Basso svolse in difesa del suo assistito Antonino Mannarà, ma risulta provato da testimonianze dirette e autorevoli.
In particolare l’imputato Gaetano Acquisto, in un periodo successivo alla stesura del saggio di Vaiana, ha riferito che nel corso della istruttoria dibattimentale avanti
Tale testimonianza dell’Acquisto trova conferma anche in quanto scrive l’arciprete Vincenzo Restivo nel suo libro Da Hiroscima all’abbraccio di Assisi, in cui, ricordando la sua personale esperienza di sacerdote chiamato quella notte al capezzale dei feriti sia all’Ospedale Civile che alla clinica Lino, afferma : “E poteva andar peggio, perché se dall’imbocco del corso Umberto la massa in sciopero si fosse sospinta fino al Circolo di Compagnia, qui sarebbe avvenuta una carneficina. I soci del circolo erano forniti di potenti armi di difesa e non erano affatto disposti a subire imposizioni (pag. 74).” Giova notare che per lo scrittore di destra Angelo
I balconi della sede del Fronte dell’Uomo Qualunque, prospicienti sull’imbocco di corso Umberto, si affacciavano sulla folla dei manifestanti, e, quel giorno, ricorda Gaetano Acquisto, sulle loro ringhiere erano state adagiate delle coperte per coprire alla vista lo spazio retrostante. Un altro particolare che apprendiamo dal racconto dell’Acquisto: sulla porta della salumeria
Nonostante la sussistenza di questi corposi elementi, che avrebbero dovuto quantomeno essere oggetto d’indagine su cosa c’era, su chi si trovava al momento dei tragici fatti all’interno di quella sezione, l’istruttoria con incredibile noncuranza ignorò completamente quel versante, concludendosi con il rinvio a giudizio per il del reato di strage degli organizzatori della manifestazione sindacale. E ciò avvenne in conformità a una logica e a una strategia che hanno caratterizzato tutte le stragi con valenza politica verificatesi in Italia. Da Portella delle Ginestre a Piazza Fontana, ci siamo trovati sempre al cospetto di una versione ufficiale preconfezionata e di una verità cercata al di fuori dei percorsi giudiziari. All’indomani della strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, per gli inquirenti i colpevoli erano già stati individuati nell’ambito della sinistra, e fu soltanto la controinchiesta pubblicata col titolo La strage di Stato a far sì che si indagasse e si arrivasse ai responsabili veri che si trovavano in tutt’altri ambienti.
A Canicattì, mancò una controinchiesta che, raccogliendo gli elementi significativi e trascurati, colmasse le non involontarie lacune e miopie giudiziarie. Le indagini seguirono la direttrice che voleva non l’ansia di giustizia ma il clima politico dominante. E l’istruttoria, condotta sul tracciato delle indagini, nelle udienze avanti
Successivamente, lo stesso reato di violenza a pubblico ufficiale venne derubricato, con sentenza della Corte di Assise di Appello di Palermo in data 17 dicembre
L’iter giudiziario, che va dall’istruttoria alla decisione della Corte palermitana, è eloquente del fallito tentativo di far ricadere le colpe della strage sugli imputati: infatti, si parte da un’imputazione di strage per finire in una condanna per resistenza a pubblico ufficiale.
La sentenza della Corte di Assise di Agrigento, smentendo i pregiudizi dell’istruttoria, fuga ogni ombra di dubbio sulla estraneità ai fatti di sangue degli imputati, quando, a pag. 27, afferma:
Comunque il fatto non fu preventivato, ma si verificò improvvisamente. Infatti nessun elemento vi è in processo atto a far ritenere che un accordo sia intervenuto tra gli scioperanti o anche solo tra i dirigenti per commettere tale delitto. Unica certezza in merito ricavabile dagli atti del processo è che i dirigenti pretendevano l’attuazione integrale dello sciopero (corsivo ns.) e quindi la chiusura di tutti i locali pubblici ed a tal fine per coartare la volontà degli esercenti riottosi radunarono la massa e la trascinarono in piazza.
Tuttavia la motivazione della sentenza non appare esente da lacune e contraddizioni, dovute ai condizionamenti politici del momento e alla mancanza di prove per affermare la responsabilità del reato di strage. Per cui abbiamo una decisione marcatamente dicotomica, nella quale, da un lato, si afferma che la strage non può essere ascrittibile agli imputati neanche sotto il profilo del reato diverso da quello voluto , ai sensi dell’art. 116 del codice penale, e, dall’altro, si vede in essa “una degenerazione della violenza usata ai pubblici ufficiali”; una insanabile contraddizione, questa, che ci pare efficacemente sintetizzata dal seguente passo:
Nella specie, pur non dubitandosi che la strage fu una degenerazione della violenza usata ai pubblici ufficiali dai tumultuanti, è però da escludere che costoro potessero prevederla come ulteriore conseguenza della loro azione ed in effetti l’avessero preveduta, dal momento che in tali condizioni i primi esposti a sicuro grave pericolo sarebbero stati – come in effetti furono – essi stessi. (pag.29).
Il processo, ereditando la parzialità e i vuoti istruttori, non fu in grado di dare un nome e un volto agli esecutori materiali della strage, per cui si concluse con una sentenza sostanzialmente politica, illogica nella motivazione ma in linea con le aspettative di un potere che nell’anticomunismo viscerale aveva trovato la sua principale ragion d’essere. Ciò che sedimentò nella convinzione collettiva canicattinese non fu l’assoluzione dal reato di strage degli imputati, ma il messaggio pedagogico che il potere politico e giudiziario aveva voluto affidare a quella sentenza. A quell’evento avevano fatto seguito la sconfitta dei partiti della sinistra e il predominio delle forze moderate, che sostenevano gli interessi della classe agraria. Un’eccezione di rilievo a tale tendenza, che oggi merita di essere ricordata, e in effetti Vaiana lo fa, fu quella dell’on. Giovanni Guarino Amella, che, nella quasi immediatezza della strage e mentre erano ancora in corso le retate poliziesche della caccia al comunista, nelle elezioni politiche dell’aprile 1948, si dissociò dai suoi alleati del Fronte dell’Uomo Qualunque e con improvvisa decisione si schierò con il Blocco del Popolo. Una scelta che, dati i suoi precedenti, a qualcuno sembrò un segno di senescenza, quando invece era un testamento di lucidità politica e di onestà umana che la città non seppe decifrare.
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Diego Guadagnino
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